Un nuovo, agghiacciante capitolo si aggiunge alla tragica vicenda della strage di Monreale. A distanza di tre settimane dal triplice omicidio che ha spezzato le vite di Salvo Turdo, Massimo Pirozzo e Andrea Miceli, i familiari delle vittime si trovano a fronteggiare messaggi intimidatori. Il dolore per una perdita così brutale si acuisce, lasciando spazio a un’ulteriore, profonda ferita.
Minacce via social: “salvo è morto, il prossimo sei tu”
Come spiega Palermo Today, a denunciare i fatti ai Carabinieri è stato il cognato di Salvo Turdo, il giovane di 23 anni ucciso la notte del 27 aprile in via Benedetto D’Acquisto. Il ragazzo, 21 anni, fidanzato della sorella di Turdo, ha riferito di aver ricevuto un messaggio privato dal contenuto inequivocabilmente minatorio sul proprio account TikTok. Il mittente si celava dietro un profilo anonimo dal nome emblematico: “mafiacosanostra”, utilizzando come immagine del profilo l’inquietante clown della saga cinematografica horror “Terrifier”.

Le intimidazioni non si sono limitate ai messaggi privati. Lo stesso account ha lasciato, tra il 30 aprile e il 3 maggio, commenti pubblici a video commemorativi dedicati a Salvo Turdo. Frasi come “Se l’è meritato” e “Chi sbaglia deve morire”, pur non costituendo una rivendicazione esplicita, appaiono come una provocatoria esaltazione degli autori del massacro, gettando ombre ancora più fosche sulla vicenda.
La famiglia Turdo rompe il silenzio: “restituire umanità a Salvo”
Di fronte a questa escalation, la famiglia Turdo, attraverso le parole del giovane cognato, ha deciso di rompere il muro del silenzio. “Lo facciamo”, ha dichiarato il ventunenne a *PalermoToday*, “perché vogliamo restituire umanità a una vicenda che rischia di finire schiacciata da narrazioni distorte, voci social e strumentalizzazioni”. L’obiettivo è chiaro: raccontare chi fosse realmente Salvo, al di là delle speculazioni e del fango mediatico.
Salvo Turdo aveva 23 anni ed era il secondo di quattro fratelli. Un legame speciale lo univa al più piccolo, di soli quattro anni e mezzo. “Guardare il piccolo di casa è come rivedere Salvo”, racconta il cognato. Era un ragazzo profondamente legato alla sua famiglia: alle sorelle, al fratellino, ai cognati, ai genitori. Un affetto profondo lo legava anche al cugino Andrea Miceli, figlio della sorella di sua madre. “Inseparabili nella vita, come nella morte. Erano come fratelli”, sottolinea il familiare.
Una vita semplice, tra lavoro e affetti
La famiglia Turdo viene descritta come un nucleo semplice, ancorato a valori autentici. Il padre è un venditore ambulante di pane e prodotti tipici monrealesi nei pressi della stazione di Palermo; la madre è casalinga. “I miei suoceri si alzano la mattina per guadagnarsi il pane, senza mai pestare i piedi a nessuno”, precisa il giovane, evidenziando l’onestà e la laboriosità che hanno sempre caratterizzato la famiglia e che erano state trasmesse a Salvo.
“Un ragazzo senza grilli per la testa, con una vita normale, fatta di lavoro, casa, amici, calcio e motori”. Così viene dipinto Salvo. Da circa un anno lavorava in un’impresa edile, lo stesso impiego del cugino Andrea. Il suo percorso formativo lo aveva visto frequentare l’istituto alberghiero, specializzandosi in cucina. Già a 15 anni, però, aveva iniziato a lavorare come barbiere, apprendendo il mestiere da Sanghez, una figura storica nel settore a Monreale. “Non si lamentava mai, era fiero del suo lavoro”, aggiunge il cognato, smentendo categoricamente le voci che lo volevano frequentatore della scuola professionale a Tommaso Natale, istituto frequentato anche da alcuni dei giovani dello Zen arrestati per la strage. “Lui non li conosceva”.
Quella sera del 27 aprile, Salvo non avrebbe dovuto trovarsi lì, secondo il racconto del familiare. “Era una serata come tante tra amici, scherzi e preparativi per la festa del Santissimo Crocifisso. Non avevamo nulla di organizzato, solamente il solito ritrovo al 365, locale che frequentavamo sempre”. A Monreale, spiega, non esistono comitive definite; ci si conosce tutti. Salvo, peraltro, frequentava più spesso i locali di Palermo, raggiungendoli con il suo scooter insieme agli amici. “Ragazzi come lui, con la testa sulle spalle. Ma quella sera non voleva perdersi i preparativi della festa”.
Il cognato rivive con strazio quei momenti. “Eravamo andati via da 10 minuti quando abbiamo ricevuto la telefonata di un nostro amico. Ci trovavamo a meno di un chilometro… ‘Hanno sparato a Salvo e Andrea, tornate indietro, correte'”. La scena che si è parata davanti ai suoi occhi è stata apocalittica: il cognato a terra, gente che urlava e fuggiva. “Mi resta il rimpianto di non essere rimasto, avrei fatto di più… Quella serata non doveva finire così: poteva capitare anche a me, a chiunque, ma non doveva capitare a nessuno”.
Si è parlato di un pestaggio con i caschi, forse per un motorino o una parola di troppo. Ma Salvo, assicura il cognato, non era un attaccabrighe; al contrario, cercava sempre di mediare. Il suo scooter era il suo orgoglio, sognava un X-Adv della Honda. “Quel motore era più suo che mio”, confida il giovane, ricordando la generosità di Salvo, con cui condivideva tutto. Un ragazzo vanitoso, attento al look, ma con valori saldi: la famiglia prima di tutto.
Le indagini, il clamore mediatico e la richiesta di giustizia
Mentre le indagini proseguono – tre giovani dello Zen, Salvatore Calvaruso, Samuel Acquisto e Mattias Conti, sono in carcere con l’accusa di essere gli autori della strage – la famiglia Turdo prende le distanze da tentativi di spettacolarizzazione della tragedia. Si fa riferimento a Fabrizio Corona, che si sarebbe recato allo Zen e poi a Monreale. “Non ci ha mai contattati”, afferma il familiare. “Non vogliamo essere parte di un racconto distorto: la narrazione che si sta creando è sbagliata. A noi non interessa apparire”.
La famiglia sottolinea la propria estraneità a certi ambienti e mentalità. “Non giriamo con le pistole, non è nella nostra mentalità. Noi pensiamo a lavorare… Sì, anche noi guardiamo certe serie: Gomorra, Il Capo dei Capi, Mare Fuori. Ma nessuno di noi ha mai pensato di vivere quelle storie. Sono solo film. La nostra vita è un’altra cosa”.
Dopo la strage, nessun cenno di scuse è pervenuto. “Nessuno ha detto una parola, nemmeno chi forse avrebbe dovuto. Ma non ci aspettavamo nulla”. La famiglia Turdo non cerca vendetta, ma invoca giustizia: “Per loro la pena giusta che si meritano”. Nonostante le minacce, il cognato di Salvo sottolinea l’ondata di affetto ricevuta. “Chi mi ha scritto quelle cose non mi fa paura. Chi scrive questo è solo una persona senza cuore”. Resta il vuoto, immenso, lasciato da Salvo, Andrea e Massimo. Un vuoto che il giovane tenta di colmare con un rito quotidiano: “Ogni sera, finito il lavoro, prima di andare a casa passo da lì, in via D’Acquisto. Saluto i ragazzi, mando un bacio al cielo e spero che gli arrivi”.